Dovevano stare in Italia sei mesi: ci rimasero per oltre sei anni e alcuni di loro fecero la Resistenza.
Il libro di Matteo Petracci, Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana, racconta la storia di un gruppo di donne e uomini provenienti da Somalia, Etiopia ed Eritrea, condotti all’esposizione coloniale organizzata dal regime fascista a Napoli nella primavera del 1940.
Dallo “zoo umano” alla Resistenza con la Banda Mario
Lo scopo è mostrare nel loro ambiente, in una sorta di “zoo umano”, le razze considerate inferiori. Bisogna costruire, ai Campi Flegrei, un “villaggio selvaggio”, per mostrare la vita quotidiana nelle colonie.
Si tratta di circa 60 persone, in prevalenza giovani uomini e alcune coppie con bambini. Ci sono anche tre impiegati delle filiali coloniali della Banca d’Italia, per lo sportello bancario della mostra, e due donne etiopi, costrette a fare le “sciarmutte” (prostitute in Africa orientale), allo scopo di «… scongiurare il rischio che giovani maschi neri, soli e lontani da casa, insidiassero donne bianche, o che tentassero di eludere i controlli di sorveglianza magari per recarsi in cerca di case di piacere…» (pag. 37).
Quando, raramente, venivano fatti venire in Italia, i “sudditi coloniali” non erano liberi di muoversi, perché bisognava preservare, cita Petracci da una rivista del tempo, «…la razza bianca dal pericolo di imbastardimento e dalla promiscuità di vita con le popolazioni di civiltà inferiore» (pag. 28). Il gruppo “ingaggiato” per la mostra non fa eccezioni: per la sua sorveglianza è prevista la presenza di un reparto della Polizia dell’Africa italiana (Pai).
Il mancato rimpatrio
Avviene qualcosa però: il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra e l’esposizione chiude in anticipo. Per il gruppo inizia un periodo ancor più difficile, le condizioni di vita peggiorano. La guerra impedisce il rimpatrio e aumenta la loro inquietudine, tra l’altro non possono allontanarsi dal villaggio.
Unico diversivo e opportunità di guadagno sono alcuni ingaggi cinematografici per documentari e film razzisti, tra i quali Knock out Harlem, pellicola ambientata nel mondo del pugilato americano.
I bombardamenti sulla città di Napoli, pesantissimi fin dal principio della guerra, contribuiscono a peggiorare le loro già precarie condizioni di vita. Finalmente, dopo richieste e proteste durate quasi tre anni, le autorità italiane trovano una nuova sistemazione: il 9 aprile 1943 gli africani della mostra arrivano a Treia, piccolo paese delle Marche.
La nuova collocazione è, nelle difficoltà della vita quotidiana, simile alla precedente: la struttura che li ospita, Villa Spada, è stata precedentemente usata come campo di internamento femminile. Cresce però la possibilità di movimento, grazie all’isolamento del paese e alle sue ridotte dimensioni. Ci sono quindi sporadici contatti con la popolazione locale, che permettono agli africani di conoscere l’andamento della guerra, sempre più critico per l’Italia.
Dall’Africa alla Resistenza
Il 25 luglio cade Mussolini, l’8 settembre è firmato l’armistizio con gli alleati. Inizia una storia nuova, anche per il gruppo degli africani. Il 5 ottobre 1943 fuggono da Villa Spada tre etiopi: sono Mohamed Abbasimbo, Scifarrà Abbadicà, Abbagirù Abbauagi. Pochi giorni dopo li raggiunge Addis Agà.
Come i militari alleati internati in fuga dai campi di prigionia, cercano e trovano aiuto dai contadini. Vestono abiti civili, ma il colore della pelle non si può cambiare. I quattro raggiungono i gruppi di ribelli che si stanno organizzando sul Monte San Vicino, e li informano che a Villa Spada ci sono armi.
Le bande partigiane in via di formazione hanno necessità di armi, così viene organizzato l’attacco alla struttura che ospita gli africani, guidati da uno di loro. L’azione (28 ottobre 1943) ha successo, le armi sono prese.
Saranno 12 le persone del gruppo di africani arrivati per l’esposizione a unirsi ai partigiani, ma forse il loro numero arriva fino a 15, tra loro una o due donne. È forse l’unico caso noto di adesione africana di gruppo alla Resistenza italiana.
Perché questa scelta? «Al di là dei numeri e del genere, per tutti l’ingresso nella Resistenza non va letto come frutto di un calcolo utilitaristico… fino ad allora somali, eritrei ed etiopi avevano vissuto in una condizione di semilibertà. Dal punto di vista formale non erano prigionieri di guerra né internati. Non rischiavano di subire nessuna persecuzione o, peggio ancora, di essere deportati in Germania… Per gli ascari della Pai, inoltre, nonostante l’avanzamento del fronte lungo la penisola, non esistevano rischi rispetto a un loro eventuale impiego militare sul suolo europeo.». Per quanto precaria e difficile, la condizione che lasciano fuggendo da Villa Spada è migliore di quella cui vanno incontro unendosi ai partigiani. «… tutti avrebbero potuto attendere il passaggio degli Alleati per poi tornare a casa, opzione che fu effettivamente praticata dalla maggioranza del gruppo. Questa dozzina di donne e uomini scelse invece di unirsi ai partigiani, facendosi consapevolmente carico dei rischi…». Come “sudditi coloniali”, non sono cittadini, sono privi di soggettività storica e politica; «…unendosi alla Banda Mario, essi attraversarono confini politici prima ancora che geografici, rivendicando il diritto ad essere soggetti della storia…» (tutte le citazioni a pag. 87).
In altre e più alte parole, scelgono liberamente di “partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo”.
La Banda Mario: a very mixed bunch
«A very mixed bunch». Il giudizio è di John Cowtan, tenente inglese scappato da un campo di prigionia. Mentre cerca di raggiungere le linee alleate, si ferma nella zona del Monte San Vicino e si unisce ai partigiani. La Banda Mario raccoglie, tra gli altri, donne e uomini di paesi diversi, fuggiti dai campi di prigionia italiani dopo l’armistizio: britannici e scozzesi, ex-prigionieri alleati, jugoslavi montenegrini, croati, sloveni ex internati, sovietici presi prigionieri dai tedeschi e trasferiti in Italia, ebrei, africani e tanto altro.
Perché è accaduto che si formasse tale gruppo in una nella zona del Monte San Vicino? Nell’Italia centrale, in particolare nelle Marche, si concentrano numerosi siti di prigionia e internamento, dai quali, dopo l’8 settembre, fuggono in tante e tanti, aiutati dai contadini (che corrono per questo non pochi rischi). Per chi scappa, la posizione geografica del Monte San Vicino lo rende un punto di riferimento visibile e individuabile in quell’area dell’Appennino umbro-marchigiano. Importante, inoltre, l’opera prestata da alcune “persone fidate” nell’orientare gli ex-prigionieri verso le basi partigiane, in particolare due sacerdoti dei luoghi: don Lino Ciarlantini, già perseguitato dal regime negli anni Trenta e don Enrico Pocognoni. Infine, la storia e il profilo del comandante, Mario Depangher.
A conclusione, andiamo al principio. La guerra di aggressione contro l’Etiopia, membro della Società delle nazioni, viene condotta con grande impiego di armi e di bombe all’iprite sganciate sulla popolazione civile. Uccide circa 275.000 etiopi e provoca immense distruzioni. Quando, nel maggio del ’36, Mussolini consegna l’impero a Vittorio Emanuele III, la Resistenza etiope non è del tutto vinta.
La solidarietà internazionale antifascista a sostegno dell’Etiopia è molto debole, se paragonata a quella per la Spagna repubblicana. Tra i pochi europei concretamente impegnati contro l’aggressione e l’occupazione fascista, Petracci ricorda Ilio Barontini, garibaldino nel ’900, volontario in Spagna nella guerra civile, nel ‘38 in Etiopia consigliere militare della guerriglia antitaliana. Barontini aiuta a costituire, nel Goggiam, un nucleo di esercito popolare formato da piccole bande per colpire le truppe d’invasione italiane. Tornato in Europa, dopo la lotta in Francia nei Francs tireurs et partisans, aiuta l’organizzazione dei Gap milanesi nell’ottobre del ’43.
Anche lui partigiano d’Oltremare?
Grazie al nostro iscritto Roberto per il contributo