Giuditta Muzzolon, la portinaia “Rita”
La storia di Giuditta Muzzolon si intreccia con quella di piazzale Loreto, ma inizia in via Pecchio 11, una strada che si snoda tra viale Abruzzi e piazza Aspromonte, poco a sud del nostro quartiere.
Nata a Lonigo, in provincia di Vicenza, il 19 agosto 1897, Giuditta Muzzolon aveva lavorato come operaia presso la casa farmaceutica Roche, prima di diventare portinaia. Nel quartiere, secondo le ricerche dello storico Massimo Castoldi, tutti la conoscono come “Rita”.
Giuditta Muzzolon e l’attività di Resistenza in via Pecchio 11
Durante gli anni della guerra, alcuni cortili di Milano, soprattutto quelli delle case di ringhiera, erano un crocevia di vite in movimento. In questo intreccio di esistenze, la figura della portinaia non era solo quella di una custode, ma anche di una testimone silenziosa, sempre presente e vigile. Nel palazzo in cui lavora Giuditta Muzzolon, in via Pecchio 11, si tengono riunioni antifasciste clandestine, e “Rita” non si limita al ruolo di portinaia: diventa anche un prezioso “palo”, sorvegliando i movimenti sospetti e avvisando in caso di pericolo. Il fulcro di queste attività è l’appartamento di Dario Barni, dove si riunisce un gruppo di socialisti milanesi.
Barni, operaio alla Pirelli Bicocca, è un attivista della Resistenza e membro dell’esecutivo milanese socialista, insieme a Eraldo Soncini e Salvatore Principato, due dei 15 di piazzale Loreto. Oltre al lavoro politico e sindacale, è impegnato nella stampa e nella diffusione del giornale clandestino Avanti!, contribuendo così alla lotta contro il regime fascista.
Il segnale, la fuga e l’arresto della partigiana Giuditta Muzzolon
Il 9 luglio 1944 (alcune fonti indicano il 20), Eraldo Soncini ha un appuntamento in via Pecchio alle 8:30, ma un quarto d’ora prima le SS italiane fanno irruzione nello stabile per arrestare Dario Barni. Quest’ultimo, però, riesce a fuggire appena in tempo grazie a due donne: la prima è Giuditta Muzzolon, che lo avvisa dell’arrivo dei militari, la seconda è sua moglie, che con uno stratagemma riesce a distrarli. Le SS, però, non si arrendono e continuano a sorvegliare la casa.
Alle 8:30 in punto, Eraldo Soncini arriva in bicicletta e Giuditta Muzzolon tenta il tutto per tutto per salvarlo: con un questurino alle spalle, gli fa cenno di scappare. Soncini capisce al volo, inforca la bicicletta e si allontana velocemente. Ma la scena non passa inosservata: il gesto della portinaia e la fuga improvvisa insospettiscono i soldati.
Per Giuditta Muzzolon ed Eraldo Soncini scatta l’arresto ed entrambi vengono portati a San Vittore. Qui, Giuditta viene interrogata, ma con coraggio non rivela nulla.
Il 10 agosto 1944, all’alba e a circa un mese dal suo arresto, viene caricata su un camion insieme ad altri prigionieri politici. Il convoglio si dirige verso piazzale Loreto, dove di lì a poco quindici antifascisti verranno massacrati nell’eccidio che ha dato il nome alla nostra sezione.
Se inizialmente chi è a bordo del camion sembra non aver intuito la propria sorte, man mano che si avvicinano al piazzale la verità diventa evidente: il loro destino è già segnato. Eppure, come racconterà molti anni dopo il figlio della donna, un ordine arrivato all’ultimo momento stabilisce che Giuditta Muzzolon debba essere graziata. Sempre secondo il racconto del figlio, Natalino Agosti, a salvarla è stato l’intervento del cardinale Schuster che aveva chiesto la grazia a Roma ed esercitato forti pressioni sulle autorità nazifasciste.
La deportazione a Ravensbrück di Giuditta Muzzolon
La storia di Giuditta Muzzolon, però, è tutt’altro che conclusa, perché “grazia” non significa “libertà”. Al contrario, davanti a lei si spalancano le porte dell’inferno: una settimana dopo la mancata fucilazione, viene caricata su un treno diretto al campo di transito di Bolzano e, da lì, nell’ottobre 1944, deportata nel lager femminile di Ravensbrück. Bianca Paganini, internata a Bolzano-Gries, racconta così la partenza per Ravensbrück:
«La mattina del 5 o del 6 di ottobre ci vennero a svegliare presto. Ci presero, ci portarono alla stazione e ci caricarono su carri bestiame. Sessanta donne su un carro bestiame! Due vagoni di donne, e dietro alcuni vagoni di uomini. Chiuse, piombate, praticamente senz’aria. Mi ricordo che una disse subito: “Dobbiamo organizzarci”. Decidemmo: “Chi ha da mangiare, mangi poco”, perché il mangiare troppo avrebbe significato sentirsi male e aver sete. Poi cercammo insieme di fare un buco nel pavimento, per avere un gabinetto provvisorio. Non sapevamo quanti giorni saremmo dovute stare in quel vagone. Un giorno e una notte rimanemmo ferme sul binario, e quattro giorni e quattro notti durò il viaggio! A Dachau il convoglio si fermò, e gli uomini scesero. I nostri due vagoni proseguirono. Ci aprirono soltanto alla stazione di Lipsia, se non sbaglio. Circondarono i vagoni, prima di aprirli, con uomini armati di mitra, ci diedero un po’ di sbobba, una brodaglia, roba calda. A noi sembrò di risollevarci un poco, però poi ci richiusero di nuovo. Cinque giorni e cinque notti! Finalmente, sporche, assetate, affamate, arrivammo, verso sera, a Ravensbrück».
Così un’altra deportata, Lidia Beccaria Rolfi, descrive invece l’arrivo nel lager:
«Parlare di inferno dantesco è quasi ovvio. È uno spettacolo indescrivibile, allucinante, assurdo. Sembra di piombare su un altro pianeta. È il momento in cui le deportate rientrano dal lavoro: una marea di persone incolonnate, cinque per cinque, sorvegliate da donne e uomini in divisa delle SS e da cani. Entrano ciabattando dal portone d’ingresso. Hanno tutte lo stesso aspetto scheletrito, sono vestite allo stesso modo, a righe o con abiti stracciati ricoperti di croci bianche; ai piedi ciabatte, la pelle gialla, gli occhi fissi, il viso stravolto dalla stanchezza. Sembrano appartenere a un altro mondo e, in effetti, appartengono a un mondo che ancora non conosciamo: il mondo del disumano».
Nonostante le dure condizioni del lager, Giuditta Muzzolon riesce a sopravvivere e a fare ritorno a Milano. Il 25 aprile 1968 le sono stati consegnati una medaglia d’argento e un diploma a ricordo del contributo dato alla Resistenza. È morta a Sesto San Giovanni il 23 settembre 1976, all’età di 79 anni.
