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Antonio Moi nasce ad Aritzo, in provincia di Nuoro, il 25 o il 26 febbraio 1902 (la data varia a seconda delle fonti).

Aritzo si trova a poco più di 800 metri sul livello del mare, nell’area che abbraccia il Mandrolisai e la Barbagia di Belvì, dove le montagne sono più alte, in quella che è conosciuta come Barbagia centrale. Qualche anno dopo la sua nascita, la famiglia di Antonio Moi si trasferisce nel vicino paese di Meana Sardo per esigenze lavorativa del padre che di professione è carbonaio. Qui, la numerosa famiglia continua a crescere.

Nei primi anni del ‘900 a Meana Sardo il livello di istruzione è spaventosamente basso e più del 50% degli alunni non partecipa alle lezioni. In un’area afflitta dalla povertà, infatti, il lavoro dei minori è indispensabile per l’economia familiare.

All wars are boyish, and are fought by boys
(Tutte le guerre sono infantili, e vengono combattute da fanciulli)

Herman MelvilleCivil War Poems

Antonio Moi e la Grande Guerra

Al principio dell’ultimo anno della 1° Guerra Mondiale, il 1918, Antonio Moi ha 16 anni. Deciso ad arruolarsi, non senza una buona dose di spericolatezza, scappa di casa e raggiunge il fronte dove si unisce all’esercito come volontario. Non è l’unico a farlo come spiega lo storico Antonio Gibelli:

«Benché il numero di giovani e giovanissimi negli eserciti mobilitati fosse alto fin dall’inizio, fu in effetti nell’ultimo anno e mezzo di guerra che entrarono in scena in maniera più massiccia le ultimissime generazioni disponibili, quelle che avevano appena toccato la soglia dell’età adulta senza varcarla del tutto o non avevano ancora preso congedo definitivo dall’adolescenza».

Dopo Caporetto, infatti, l’offensiva militare dell’ultimo anno di guerra si attua grazie ai cosiddetti “ragazzini del ’99”. Per questi adolescenti, 17 a diciassette anni, si pone il problema della statura e della circonferenza toracica, ben presto risolto con metodi spicci: l’esame viene fatto mettendo il metro di traverso, in modo da ottenere la misura richiesta.  Spiega ancora Gibelli:

«Naturalmente la partecipazione effettiva dei piccoli alla guerra era una trasgressione che si poteva vagheggiare, ma non promuovere: doveva essere desiderata ma non praticata. Nondimeno non solo nella letteratura, ma anche nelle cronache dell’epoca, i casi di adolescenti maschi scappati da casa per unirsi alle truppe combattenti e persino di femmine che si travestono in fogge maschili per fare altrettanto non mancano».

Tuttavia, questa triste tendenza non è una novità: il fenomeno dei soldati-bambini era molto esteso già nella Guerra civile americana dove si stima che i ragazzi sotto i 16 anni coinvolti attivamente nel conflitto siano stati tra i 250.000 e i 420.000.

In precedenza, nella Francia della rivoluzione erano stati formati reparti militari in cui erano arruolati anche bambini con età inferiori ai 14 anni, e nel periodo napoleonico fu creato un reggimento composto di circa 6.000 ragazzi tra i 15 e i 18 anni. Anche nel Risorgimento italiano, il volontariato adolescenziale, giovanile e studentesco era stato un fenomeno importante: nell’esercito reclutato da Garibaldi al tempo della difesa di Roma erano comprese compagnie interamente composte da giovinetti tra i 12 e i 15 anni.

Nel corso dell’Ottocento l’età per accedere all’esercito fu innalzata, ma la Grande guerra ripropose la figura del “fanciullo soldato”. Peculiarità della Grande guerra è l’essere stato, forse, il primo conflitto armato “totale”, al centro del quale i bambini sono posti, secondo Gibelli:

«come pegno e garanzia del futuro, condensato dei sentimenti patriottici, metafora concentrata di tutto ciò per cui si combatte e si muore. Nel momento in cui per le nazioni e per le identità che si contrappongono diviene questione di vita e di morte, sembra giocoforza attingere alle forme estreme della resistenza psicologica, al nucleo vitale dell’esistenza collettiva, cioè appunto ai bambini.

L’esasperazione della cultura di guerra, la tendenza di quest’ultima a travalicare ogni confine spingono dunque i bambini in primo piano come mai era accaduto. la Grande Guerra conosce, tanto in Italia come negli altri paesi belligeranti, un coinvolgimento ancora più diretto dei bambini e dei ragazzi, assottiglia fino a estinguerlo il diaframma che separa i minori dalle pratiche di guerra vere e proprie: non solo li attiva come agenti della solidarietà e cultori dell’odio ma, specialmente nella fase finale, getta materialmente nelle trincee centinaia di migliaia di adolescenti al di sotto dei diciotto anni, a riempire la voragine delle perdite. Secondo alcuni calcoli del solo esercito inglese. i ragazzi inferiori ai 16 anni sarebbero stati ben 250.000.

Nessuno è abbastanza piccolo per non poter diventare eroe. È venuto il momento di bruciare le tappe, di accorciare il percorso che dal gioco della guerra conduce alla guerra vera. E come nelle fabbriche occorre ridurre il tempo di produzione dei proiettili, così occorre ridurre il tempo di produzione dei soldati dalla materia prima dei fanciulli».

Dopo la Grande Guerra: Antonio Moi e la falegnameria

In trincea, Antonio Moi stringe amicizia con un commilitone milanese che, una volta terminate le ostilità, lo accoglie in casa sua, permettendogli di studiare alla Scuola Umanitaria e di apprendere la professione di ebanista. Terminato il percorso di istruzione, Antonio Moi si dedica al mestiere della lavorazione del legno, collaborando con l’architetto Giuseppe de Finetti, tra i più importanti a Milano nella prima metà del XX secolo.

Forse Antonio Moi raccolse un’antica eredità. Nel suo paese di origine, Aritzo, alla fine del XIX secolo, era molto grande secondo De Villa:

«la quantità delle tavole, doghe, cerchi, travi, traversine e pali telegrafici che si esportano tutti gli anni. Vi ha molti falegnami e fra gli abili e diligenti sono parecchi grossolani che costruiscono tuttavia le famose casse scolpite a punta di sgorbia a disegni preistorici di figure che. vogliono dire uccelli, rami. queste casse vengono smerciate dai viandanti, lontano dal paese, alla gente minuta, per ripostigli d’indumenti e biancheria».

Antonio Moi e la Resistenza

Dopo l’8 settembre 1943, Antonio Moi si unisce a una banda partigiana specializzata in sabotaggi e attiva nella zona di Bovisio (dove Moi risiede), Cesano Maderno, Varedo e Limbiate.

Ai primi di novembre del 1944, probabilmente grazie all’azione di un fascista infiltrato, una retata scompagina la formazione partigiana: 46 persone vengono fermate e incarcerate, 32 deportate (di cui 9 non faranno ritorno).

Antonio Moi

Sardo, piccoletto dagli occhi vivaci. Uomo di poche parole, Moi animava il nostro movimento. Nella vita privata dirigeva un’importante industria. Era anche lui padre di due figli. Si era buttato nella lotta convinto che non erano tempi, per un galantuomo, di restare dietro alla finestra a guardare.

Vincenzo Pappalettera

Dal carcere di San Vittore, Antonio Moi e gli altri partigiani brianzoli vengono deportati al lager di Bolzano-Gries.

Il 2 dicembre 1944, Thelma Hauss – moglie dell’architetto de Finetti e, insieme a lui, attiva nella Resistenza – annota voci e notizie dell’invio di Moi in Germania: «corre voce che abbia cercato di scappare, ma è stato preso, è ferito ed è ricoverato all’ospedale di Bolzano. Le notizie arrivavano da un uomo che era riuscito a scappare quella stessa volta, è sicuro di aver visto Moi, gli hanno sparato, ma non l’hanno ucciso. La povera signora Moi è arrivata a Bolzano, ma lui non c’era più.; le ha detto che quando Moi ha lasciato il campo era su di morale, combattivo come sempre».

Successivamente Antonio Moi è deportato a Mauthausen con il “Trasporto 104”.

Nei lager

All’ingresso nel lager, il 21 novembre 1944, ad Antonio Moi viene imposto il contrassegno con il triangolo rosso (tipico dei deportati politici) e il numero di matricola 110333. Il 2 dicembre 1944 viene poi deportato da Mauthausen ad Auschwitz .

Nella sua testimonianza, Vincenzo Pappalettera conferma il trasferimento ad Auschwitz e prefigura la tragica fine:

«Antonio Moi, dopo pochi giorni dall’arrivo a Mauthausen, venne trasferito ad Auschwitz; poi, a quando nel gennaio evacuarono quel lager, venne rimandato a Mauthausen dove arrivò il 29 gennaio. Era impossibile sopravvivere a due viaggi del genere».

Il 18 gennaio 1945, infatti, inizia l’evacuazione del più grande campo di sterminio creato dai nazisti e Antonio Moi fa ritorno a Mauthausen dove viene nuovamente immatricolato con il numero 124114 il 29 gennaio. Il viaggio è stato fatto per grande parte a piedi, in una marcia che vede innumerevoli deportati morire per lo sfinimento o uccisi dalle guardie.

L’ultima fase precedente la liberazione è caratterizzata da una vorticosa serie di trasferimenti dei deportati, mano a mano che il fronte avanza, verso i campi situati all’interno della Germania; spostamenti durissimi e brutali, vere e proprie “marce della morte”. Si calcola che dei 66.000 evacuati da Auschwitz persero la vita circa 15.000. Marce forzate partirono anche da altri campi, come Dachau, Mauthausen, Ravensbrück e Neuengamme. Anche i prigionieri di Stutthof, Gross-Rosen, Buchenwald; Sachsenhausen. vennero evacuati nello stesso modo. Negli ultimi due mesi di guerra, furono costretti a tali marce 250.000 prigionieri.

Al rientro nel campo di Mauthausen, Antonio Moi viene rinchiuso nel revier, l’infermeria del campo e qui muore come testimonia Vincenzo Pappalettera:

«Il suo destino si è compiuto in revier il 24 marzo. Ero in revier quando arrivarono i deportati da Auschwitz; vidi in quali condizioni erano e mi chiedo come Moi abbia potuto resistere così a lungo. Uomo di poche parole, animava il nostro movimento. Nella vita privata dirigeva una importante industria. Era anche lui padre di due figli, Mirella e Marco. Si era buttato nella lotta convinto che non erano tempi, per un galantuomo, di restare dietro la finestra a guardare. Era necessario che tutti contribuissimo, con la partecipazione attiva, alla lotta contro i tedeschi, anche per riscattarci dagli errori del ventennio e finirla al più presto con la guerra».

Vincenzo Pappalettera, matricola 115637, viene liberato il 5 maggio 1945 dalle truppe statunitensi giunte a Mauthausen. Al suo ritorno a Milano, in un ufficio organizzato per aiutare gli ex-deportati, le loro famiglie e le famiglie dei deportati uccisi, incontra i familiari di Antonio Moi: «Mirella e Marco Moi hanno avuto una madre forte: di poche parole, come il marito, ha fatto loro anche da padre. Si è rimboccata le maniche e si è messa a fabbricare oggetti religiosi in materia plastica. Un modesto inizio, una botteguccia artigiana divenuta con gli anni una fiorente azienda».

La moglie di Moi, Egle Chiari (Milano, 16 luglio 1908) abitava a Milano in via Rovereto 7. Probabilmente per questo motivo, Antonio Moi è ricordato nella lapide collettiva di piazza Morbegno.

 

Letture

Pietro Arienti, Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich. La deportazione verso la Germania nazista di partigiani, oppositori politici, operai, ebrei. Il caso dei lavoratori coatti, Bellavite, 2011.

Aldo Borghesi, Sardi nella deportazione, in Il libro dei deportati, ricerca del Dipartimento di storia dell’Università di Torino diretta da Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia; promossa da ANED, Associazione nazionale ex deportati, Volume II. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, Mursia, 2010.

Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringhieri, 2016.

Giovanni Cislaghi, L’opera di Giuseppe de Finetti negli anni della guerra, in Thelma De Finetti, Anni di guerra 1940-1945, Hoepli, 2009.

Thelma De Finetti, Anni di guerra 1940-1945, Hoepli, 2009.

Giuseppe Luigi De Villa, La Barbagia e i barbaricini in Sardegna, Arnaldo Forni editore, 1984 (ed. originale 1889).

Angelo d’Orsi, Pagano Giuseppe, in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, volume secondo L-Z, Einaudi, 2003.

Marcello Flores, Mimmo Franzinelli, Storia della Resistenza, Laterza, 2019.

Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Einaudi, 2005.

Antonio Gibelli, La guerra grande. Storie di gente comune 1914-1919, Laterza, 2014.

Antonio Gibelli, I bambini, in Dizionario storico della prima guerra mondiale, (sotto la direzione di) Nicola Labanca, Laterza, 2014. Il libro dei deportati, ricerca del Dipartimento di storia dell’Università di Torino diretta da Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia; promossa da ANED, Associazione nazionale ex deportati  (la scheda di Antonio Moi in vol. I tomo 2 pag. 1449).

Jean Pierre Jouvet, Pappalettera Vincenzo, in Dizionario della Resistenza, Volume secondo, Einaudi, 2001. a cura di Walter Laqueur, Dizionario dell’Olocausto, Einaudi 2004.

Meana. Radici e tradizioni, (a cura di) G. Lilliu, A. Luciano, G.L. Nonnis, M.A. Sanna, G. Sorgia, Amministrazione comunale di Meana Sardo, 1989.

Valeria Morelli, I deportati italiani nei campi di sterminio 1943 – 1945, Scuole Grafiche Artigianelli, 1965.

Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino: vita e morte a Mauthausen, Mursia, 1974.

Salvatore Pirisinu, Aritzo. Storia e immagini di un paese della Barbagia, Edes, 2008.76.

Italo Tibaldi, Compagni di viaggio, Dall’Italia ai lager nazisti. I «trasporti» dei deportati 1943-1945, Consiglio regionale del Piemonte, Aned, Franco Angeli, 1994

Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano, Mimesis, 2004.