La nostra iscritta Ersilia ha raccolto alcune storie che raccontano il contributo delle donne alla Resistenza: ritratti di “piccole grandi donne” che, con coraggio, hanno saputo fare la loro parte per fermare il nazifascismo.
Ritratti di donne nella Resistenza
Uno degli obiettivi dei Gruppi di Difesa della Donna è stato quello di coinvolgere il più possibile le casalinghe.
“Stabilii dei contatti”, racconta Piera Antoniazzi, agitatrice alla Borletti e partigiana della 113° e 122° Brigata Garibaldi di Milano. “Spesso mi spacciavo per una persona che voleva vendere qualcosa e poi attaccavo bottone. Mi ricordo di una donna che era soprannominata ‘Maria del Caravaggio’, aveva un cuore d’oro. Nella sua casa nascondemmo provviste, ma anche persone ricercate dai nazifascisti, con il rischio che qualche vicino andasse a spifferare tutto. Anche le casalinghe meritano di essere ricordate per il loro impegno, spesso invece ci si dimentica del ruolo che hanno avuto e vengono maltrattate dalla storia”.
AA.VV., Le donne e la Resistenza. Intervista a Piera Antoniazzi, Milano, Edizioni Rapporti Sociali, 2000
Adelina Mazzocchi
Di fronte all’imminente pericolo della deportazione, a fine ottobre del 1943 la famiglia di Bruna Cases decide di fuggire in Svizzera. Ma bisogna trovare una sistemazione per la vecchia zia Erminia ormai inferma. “La porto al mio paese con me”, annuncia senza esitazioni Adelina Mazzocchi, la donna di servizio della zia. Quando Erminia muore poche settimane prima della Liberazione, Adelina e le sorelle chiedono che sia celebrato un funerale laico, un gesto che può insospettire i fascisti. A tutte loro, nel 2011 Bruna riesce a fare avere il riconoscimento di “Giusto delle Nazioni”. E Adelina di vite ne ha salvata più di una perché senza di lei, scrive Bruna, “non avremmo mai avuto il coraggio di abbandonare la zia e scappare in Svizzera”.
Bruna Cases, Federica Seneghini, Sulle ali della speranza. Il mio diario di bambina in fuga dalla Shoah, Milano, Piemme, Mondadori libri, 2022
Luigia e i partigiani da sfamare
Mia mamma Luigia abitava durante la guerra all’ultimo piano di una casa di via Terraggio dove in solaio allevava un pulcino d’oca. Un giorno, allarmata da un rumore di passi, si precipita di sopra. Il pulcino c’è ancora, ma ci trova anche quattro partigiani armati, uno dei quali ferito ad una gamba, che sono arrivati per i tetti. Non li avrebbe traditi, e del resto la tengono sotto minaccia, ma occorre sfamarli. L’idea che ha avuto è stata un colpo di genio, da donna del popolo di carattere qual era.
Prende due secchi e si presenta alla caserma in piazza Sant’Ambrogio; chiede del capoposto e gli fa più o meno questo discorso: “Tutte le notti siamo bombardati perché qui c’è la vostra caserma, siamo disperati e abbiamo fame. Li vede questi due secchi? Da stasera e ogni sera, io vengo qui, lei fa finta di niente, io vado in cucina e il rancio che è avanzato lo porto via per tutti”. E così è stato.
Per non dare nell’occhio, con un mestolo distribuiva cibo nella via alle persone più bisognose, poi saliva in solaio. Un giorno l’ha trovato vuoto, i ragazzi avevano ripreso la via dei tetti. Nel dopoguerra mia mamma è rimasta per alcuni anni in contatto con la madre di uno dei partigiani. Quando si vedevano, si abbracciavano piangendo, senza parlare, era il loro modo di ricordare quei tempi.
Tratto dalla testimonianza di M.B. raccolta il 7 maggio 2021 da Ersilia Monti
Sandra Gilardelli
Il comandante Mosca, con cui da sposati avrebbe avuto una “lunga vita felice”, incontrandola in paese, offriva a Sandra una caramella e una sigaretta alla sua amica. A 19 anni la considerava una ragazzina. Ma lei, che spontaneamente si era messa al servizio dei “ribelli”, non si scoraggiava di fronte a richieste per quei tempi quasi impossibili: grandi quantità di disinfettanti, bende per i feriti, indumenti per l’inverno, nascondigli sicuri. E ci è sempre riuscita, superando anche perquisizioni e posti di blocco.
Ancora oggi, quasi centenaria, Sandra Gilardelli va nelle scuole a raccontare “da chi l’ha vissuta, quanto è brutta e mortificante la mancanza di libertà”.
Sandra Gilardelli, Una ragazza nella Resistenza del Verbano, Rozzano, stampa Attilio Negri, 2020
La signora del caffelatte
A pochi giorni dall’armistizio lo scalone della Stazione Centrale che salgo sempre di corsa è disseminato di foglietti. Dai finestroni della sala d’aspetto, con le vetrate infrante dalle bombe, sporgono premuti dalla calca alte figure di militari in divisa con i grandi alamari dei Granatieri di Sardegna. “Dalli alle nostre famiglie! Ci portano in Germania”, vengono da Roma dove hanno combattuto a Porta San Paolo. “Ma lo conoscete mio fratello Meo? Anche lui è granatiere”.
Una voce dal fondo mi rassicura, lo conosce, ed è ancora a Roma. Imbuco i biglietti in una cassetta postale e corro a cercare un treno che va a Sud, lo devo salvare! Sfuggo a Reggio Emilia a un feroce sergente tedesco che cerca sbandati e renitenti, ma a Bologna il treno si ferma. Indugio sulla banchina smarrito. Una mano scivola sotto il mio braccio, è una donna di una certa età, sento che mi vuole proteggere, dice che bisogna stare attenti, hanno ucciso un ragazzo davanti alla stazione. Mi fa sedere, mi ascolta, e dalla sua borsa escono un thermos col caffelatte e una ciambella. Mi dice che ha perso un figlio in guerra. Poi mi accompagna a un binario dove parte un treno per Roma e ci salutiamo con un bacio. Non so se quella signora andasse tutti i giorni alla stazione, a me forse ha salvato la vita.
Tratto dalla testimonianza di Biagio Colamonico raccolta da Ersilia Monti il 20 dicembre 2015
Donne e Resistenza nel nostro quartiere
Riuscire a trovare la caserma di mio fratello nella Roma impazzita occupata da tre giorni dai tedeschi, senza avere né nome né indirizzo, è stata un’avventura, ma ce l’ho fatta. Superato il blocco indolente di un paio di guardie tedesche, quando faccio irruzione nella camerata, stanno tutti giocando a carte nella serafica attesa del congedo. “Ma non avete capito che a Milano vi portano in Germania?”.
Quando spiego quello che ho visto, e constatato che il più alto in grado rimasto è un sergente, l’intera caserma si svuota, i soldati si riversano sulla strada diretti alla stazione più vicina dove si sta già dando l’assalto ai treni. A Milano, poco prima della Stazione Centrale, il convoglio si immette sul binario più esterno e si ferma sul ponte di via Padova a ridosso del parapetto su cui si affaccia una casa. I ferrovieri sapevano cosa fare.
Da un balcone, che dista pochi metri, un ragazzo e una ragazza ci porgono una scala di legno che attraversiamo carponi per introdurci nell’appartamento. Qui Meo si spoglia della divisa, e in abiti civili scendiamo in via Padova, ma non è ancora la salvezza perché sta sopraggiungendo una pattuglia di fascisti. Ci buttiamo dietro il carretto di un ortolano fra le donne alla quotidiana ricerca di cibo, e qui avviene qualcosa: le donne istintivamente si compattano, fanno muro intorno a noi, alzano il tono della voce per distrarre i fascisti che passano senza vederci. Non c’è tempo per i saluti, corriamo verso piazzale Loreto per prendere il tram che ci porta a casa. Il mese dopo ci uniamo ai resistenti del gruppo Cinque Giornate sul Monte San Martino.
Tratto dalla testimonianza di Biagio Colamonico raccolta da Ersilia Monti l’8 e il 20 dicembre 2015; l’episodio si è svolto a pochi metri dalla casa di Dante Villa.
Donne nella Resistenza: il contributo delle suore
Piene d’inventiva e di coraggio, sono numerose le suore che nei conventi, negli ospedali e nelle carceri si sono prodigate per favorire fughe, nascondere o camuffare ricercati, falsificare documenti o cartelle cliniche, indurre febbri e inventare malattie contagiose, raccogliere e smistare informazioni, subendo anche arresti e interrogatori. Nella sola città di Roma hanno ricevuto rifugio nei conventi più di 4300 ebrei.
Un piccolo episodio dà la misura dello spirito di iniziativa di molte suore. Un giorno suor Teresa Scalpellini, attiva all’Ospedale Maggiore di Milano, dopo avere portato cibo con un’infermiera a un detenuto nascosto nel gabinetto di radioscopia, si accorge che la porta è rimasta chiusa dall’esterno: “Per non rivelare la presenza del detenuto, non ci è rimasta altra soluzione che uscire dalla finestra, percorrere alcuni metri su un cornicione e rientrare in un altro locale attraverso una finestra rimasta fortunatamente aperta”. A suor Giuseppina De Muro, attiva durante la guerra nel braccio femminile delle Carceri Nuove di Torino gestito dalla Gestapo, si deve nell’immediato dopoguerra la creazione di un asilo nido per le detenute e la distribuzione di libri.
Giorgio Vecchio (a cura di), Le suore e la Resistenza, Milano, In dialogo, Ambrosianeum, 2010



