Nato a Catania il 10 giugno del 1899, Alfonso Cuffaro è ingegnere, imprenditore, comunista. Con il nome di battaglia “Quinto”, Cuffaro è attivo nei primi Gap milanesi: nella sua villa di Belgioioso ha allestito a proprie spese una tipografia clandestina. Non solo, si occupa anche del recupero e della fornitura di armi, munizioni e vettovaglie. Lo aiutano la sorella Maria Cuffaro e il cognato Alfonso Montuoro. Con loro anche la sorella di quest’ultimo, Maria Montuoro – detta Mara – che sarà deportata ad Auschwitz, ma riuscirà a sopravvivere.
Alfonso Cuffaro e sua sorella Maria vengono arrestati il 24 febbraio 1944 nella loro casa di via Lazzaroni 12, a due passi dalla stazione Centrale di Milano. Maria Cuffaro sarà subito rilasciata.
Quattro fratelli, due matrimoni
Prima di continuare, spieghiamo l’intreccio delle due famiglie: i due fratelli Alfonso e Maria Cuffaro avevano sposato, rispettivamente, altri due fratelli: Ersilia (detta Tita) e Alfonso Montuoro (detto Ninì). Di seguito un breve riepilogo che aiuta a capire le sorti dei protagonisti di questa vicenda:
Famiglia Montuoro
- Alfonso Montuoro, Palermo 24/07/1907; arrestato a Milano il 24/02/1944 e deportato a Mauthausen, dove muore lasciando vedova la moglie Maria Cuffaro
- Ersilia Maria Montuoro, Palermo 05/09/1908; moglie di Alfonso Cuffaro e autrice del libro “Il sapore del sale”
- Maria “Mara” Montuoro, Palermo 16/10/190, arrestata a Belgioioso il 26/02/1944, deportata insieme al fratello Alfonso, sopravvissuta. Morta il 04/03/2001
Famiglia Cuffaro
- Alfonso Cuffaro, Catania, 10/06/1899 – Milano, 1949; arrestato a Milano il 24/02/1944 e detenuto a San Vittore, morto dopo la Liberazione in seguito ai pestaggi. Marito di Ersilia Montuoro.
- Maria Cuffaro, Raffadali (AG) 21/05/1902; moglie di Alfonso Montuoro; arrestata a Milano il 24/02/1944 e subito rilasciata
Ersilia Montuoro ricostruisce la loro storia nel libro “Il sapore del sale”: al momento dell’arresto si trovava nella casa di Belgioioso, convalescente. Di tutti, Tita è la meno coinvolta nel movimento resistenziale. Così descrive l’ambiente familiare in cui era cresciuta:
«Mio padre raccontava che a quei tempi, per le strade, le camicie nere cantavano: “della carne di Matteotti ne faremo salsicciotti”. E parlava anche del confino, mio padre che era stato chiamato ad assistere al parto la moglie di uno dei fratelli Rosselli confinati ad Ustica. Ne tornò sconvolto. Benché non fosse politicamente impegnato, non accettava imposizioni. Immaginarsi se accettò quella dell’iscrizione al partito fascista! Una volta, ad un congresso medico, attaccò violentemente Padre Gemelli che voleva indurre gli ostetrici all’assassinio della madre, anche non consenziente, per salvare il nascituro. “Voi occupatevi dello spirito, che ai corpi pensiamo noi medici”».

”Tutto, tutto è successo per un taccuino. Sul taccuino era scritto Ninì. Il ragazzo che lo aveva in tasca fu arrestato. Il taccuino fu letto e quando gli chiesero chi fosse Ninì, preso da panico, disse tutto: Alfonso Montuoro, via Lazzaroni dodici Milano.
Maria Cuffaro
Le circostanze dell’arresto
Maria Cuffaro racconta così le circostanze dell’arresto alla cognata:
«Quelli dell’U.P.I. vennero al terzo piano. Non ci trovarono, e salgono da Alfonso. Pensa che da voi si era svolta una riunione molto importante e per fortuna erano andati via tutti.
“Cerchiamo Alfonso Montuoro”.
“Sono io”, rispose tuo fratello.
“Conosci Beppe? Un ragazzo un po’ gobbo, gli occhi azzurri, piccolino?”.
“No”, rispose lui.
Gli diedero un potente schiaffo, “Tanto per rinfrescarti la memoria”
“Se non lo conosco non posso dirti che lo conosco per farti piacere”
Come vedi, Ninì ricambiava il tu… “Sul taccuino era scritto Ninì”
“Ci sono centomila Ninì”
“Ma uno solo che corrisponda al tuo cognome”, e gli diedero un potente pugno in piena faccia»
Sembrerebbe, quindi, che l’arresto di Alfonso Montuoro preceda quello di Maria e Alfonso Cuffaro. Infatti, è sempre Maria che, testimone dei fatti, attraverso la ricostruzione di Tita, racconta:
«Quando “quelli” arrivarono in casa, Alfonso aveva tentato di scagionare Ninì, dicendo che probabilmente il ragazzo, troppo giovane, si era confuso. Era lui che conosceva: Alfonso Cuffàro. Forse, aggiunse, sapendolo cognato di Alfonso Montuoro, si era sbagliato. Il progetto di Alfonso era di far fallire il confronto perché quel ragazzo non l’aveva mai visto. Ma non li convinse: gli risposero che il mandato di arresto era per Alfonso Montuoro. Ninì fu portato via, sentii la voce di Alfonso: mi chiamava in aiuto: stava già bruciando nella stufa ogni carta compromettente. Lo aiutai come potei. Mi scosse e disse deciso: “Tu va’ subito a Varese per far sparire tutto anche là. Io corro a Belgioioso per avvertire Tita, Mara, i compagni e fare altrettanto per il nostro lavoro”.
Uscimmo e mi aggrappavo a mio fratello per non cadere. Arrivati alla stazione, pensai a un tratto alla borsa di cuoio. “La borsa di cuoio, la borsa coi fascicoli di Marx! Si deve tornare a prenderla”. Tornammo indietro di corsa. Non avevamo più fiato. Ecco il portone. Ma cosa troviamo piazzata là davanti? Una macchina. Erano forse tornati? In casa, quelli dell’U.P.I. con Ninì. Avevano trovato la borsa. Che espressione trionfante!
“Di chi è questa borsa?”. Ninì e Alfonso risposero di non saperne niente. “E voi che dite?”, chiesero a me. “Che quella non è una borsa da donna”. Nel racconto di Maria Cuffaro c’è l’insistenza dei persecutori e, infine, la confessione di un dipendente di Alfonso Cuffaro, presente all’arresto. “Tu non sai cos’è la paura, Tita. Non possiamo giudicare”».
La perquisizione a Belgioioso
Il 26 febbraio 1944, la Guardia nazionale repubblicana arresta a Belgioioso Maria Mara Montuoro (zia Lalla), sorella minore di Ersilia e Alfonso Montuoro. All’arresto assistono i genitori e la sorella Ersilia che racconta:
«Mi turbai per una voce stravolta. Era mia madre. “Tita, Tita!”. Corsi con le braccia cariche di fiori. Mio padre mangiava con ostentata indifferenza dicendo a tre tipi strani: “Se cercate sacchi di zucchero e caffè o di farina, se volete scovare forme di formaggio o cosciotti di prosciutto, avete proprio sbagliato strada: in casa del podestà dovete andare. Qui da me, più che libri di musica o di medicina non potete trovare”. Questo lo diceva ai tre sconosciuti i quali frugavano dappertutto, specie tra le carte. Mara era muta e vibrante: i suoi occhi, bagliori di sfida. Il giovane alto, dagli occhi torbidi e febbricitanti, disse a mia madre con modi da caporione: “Signora, accompagnate su il camerata”».
L’accurata perquisizione proseguì al piano di sopra, in presenza di Elvira, che assiste a un tentativo di furto di gioielli. Lo sguardo del milite «si pose poi sospettoso su una cassetta di metallo. “Che c’è qui?” L’aprii pronta “Sono manoscritti: un libro per bambini che sto scrivendo. Guardi pure, se le piacciono le fiabe” Egli mi rivolse uno sguardo privo di interesse e fece proprio male il suo mestiere, ché, se avesse frugato bene in quella cassetta, avrei avuto anch’io la mia per un racconto antifascista. Entrai nella camera di Mara. Tra i libri, già trovata la lettera da lei scritta a uno zio per esortarlo a non asservirsi alla “Repubblichetta di Salò”.
Era una lettera che avevo molto ammirata: denunciava con molta chiarezza, le infamie degli ultimi vent’anni culminanti nell’occupazione nazista e nel vigliacco intervento di Mussolini proprio nel momento in cui la Francia era stata invasa. Gli diceva come noi italiani dovevamo lavare quest’onta prendendo posizione contro i nazifascisti. Una lettera che avevo definita meravigliosa. Ma il “biondo” la pensò diversamente: teneva il foglio fra pollice e indice, ben lontano da sé, come cosa infetta, chiedendo: “Chi ha scritto questo capolavoro?” Con un bagliore di sfida, Mara rispose: “Io”. Il corpo di mia madre sussultò, io stavo per svenire. “Te ne vanti anche! E perché l’hai scritta?”. “Perché l’ho sentita”. “Con questi sentimenti, dieci anni di carcere non te li leva nessuno”».
L’incarceramento a San Vittore dei Cuffaro e dei Montuoro
Alfonso Cuffaro e Alfonso Montuoro sono incarcerati il 25 febbraio 1944, Maria Mara Montuoro il giorno dopo. I tre siciliani antifascisti vengono interrogati e pesantemente torturati.
Nonostante le difficoltà, Maria è di conforto per le altre detenute e compone persino parodie di canzoni in voga con testi antifascisti: una di queste racconta la vita in carcere nell’aspetto forse più duro. Il ritornello, infatti, è incentrato sulle risposte ripetute dai detenuti e dalle detenute sotto interrogatorio a San Vittore durante il nazifascismo.

”Maria verrà lungamente battuta con un nerbo di bue da una donna che parla con accento tedesco. È però Cuffaro quello sospettato di aver tessuto i collegamenti e contro di lui si accaniscono bestialmente: lo frustano col nerbo e con una catena, gli lesionano i polsi con i ferri a vite, lo prendono a calci e a furia di pugni gli fratturano la mandibola da entrambe le parti.
Borgomaneri
Ersilia Montuoro e il suo impegno per salvare i familiari
Ersilia Montuoro, nel frattempo, cerca di salvare il marito, il fratello e la sorella, incontrando, invano, alcuni conoscenti che riteneva in grado di intervenire per farli scarcerare. Grazie all’intervento di una religiosa in servizio in carcere, suor Angela, Ersilia riceve alcune lettere dal marito, e riesce a incontrarlo per pochi minuti.
Infatti, il dottor Cesare Gatti, medico del carcere, prescrive ad Alfonso Cuffaro una radiografia. Cuffaro, riferisce a Ersilia una persona fidata, non è grave, ma il medico sta facendo di tutto per aiutare lui e altri detenuti. Grazie alla collaborazione del dottor Federico Mucchi, radiologo dell’ospedale, Ersilia Montuoro può incontrare il marito nella sala di attesa per poco tempo, ma sufficiente per fargli sapere che sta organizzando la sua evasione.
Forse spinta dalla disperazione e nella speranza di contrasti tra le varie polizie repubblichine, Ersilia Montuoro si rivolge al questore di Milano, che la manda dal podestà e segretario federale, il quale le fa scrivere una lettera di denuncia delle torture inflitte al marito, con la promessa di recapitarla a Mussolini. «Dopo pochi giorni si sparse la voce che il tenente Manlio Melli, il biondo seviziatore delle carceri, era stato chiamato a Salò. Bene, pensai, Mussolini vuole salvare la faccia, e quello, per lo meno, farà da capro espiatorio. Infatti pare che Melli subì un’inchiesta, tre giorni di carcere, ma poi tornò con la nomina di capitano».
Da San Vittore al campo di Fossoli e da Fossoli a Ravensbruck
Sul finire di aprile del 1944, Alfonso e Maria Mara Montuoro, insieme ad altri 300 detenuti tra cui Davide Carlini, vengono deportati a Fossoli.
Poco dopo aver saputo dell’internamento del marito, Maria Cuffaro si organizza per andarlo a trovare:
«Con molta cautela, si poteva porgere cibo attraverso il filo spinato. La mamma è indaffarata in cucina a chiudere gli ultimi pacchetti. Maria l’aiuta porgendole la carta oleata dove vengono involte, con cura, cosce di pollo e pezzi di frittata: destinazione Fossoli. Eccoli Ninì e Mara al di là della barriera, già isolati dai vivi. I loro occhi dicono quanto le labbra tacciono. Non possono avvicinare. Piccolo nucleo compatto nello stesso dolore. Una sentinella avanza: per loro? Che si sia accorta? Via alla svelta senza far rumore».
Nonostante il miglioramento rispetto alla condizione carceraria, gli internati sanno che la loro sorte è sospesa a un filo: potrebbero essere condannati a morte per la loro attività cospirativa, fucilati per rappresaglia contro un’azione partigiana o essere deportati in un campo di eliminazione. Alcuni internati si illudono di rimanere a Fossoli, o di essere scarcerati. Una “canzoncina” di Maria Mara Montuoro racconta questi sentimenti:
Notte e dì,
Radio Campo.
Mai non cessa le trasmissioni,
con un getto di informazioni,
“Si va a casa a fine mese,
e il tedesco assai cortese
il cancello sorridendo ci schiuderà”
Stanno preparando i pani,
ciò vuol dire che domani
tutti quanti per Mauthausen si partirà.
L’epilogo dei Cuffaro e dei Montuoro
Alfonso Cuffaro morirà a Milano il 18 maggio del 1949 a causa delle torture subite in carcere. Una lapide in via Soperga ne tiene viva la memoria.
Maria Mara Montuoro è sopravvissuta all’internamento ed è morta nel 2001. Non riuscì invece a tornare a casa il fratello Alfonso, morto in campo di concentramento.