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Filippo Benassi, nome di battaglia Marino Colasante

Filippo Benassi nasce il 17 giugno 1893 a Milano, dove abita in via Paganini 20 (non lontano da piazzale Loreto).

Ufficiale dell’esercito fino all’8 settembre del 1943, subito dopo l’armistizio entra a far parte della Resistenza con il nome di battaglia “Colasante Marino“. La zona in cui è attivo è quella del bergamasco.

 

La Resistenza a Bergamo: il ruolo di Adriana Locatelli

L’inizio della Resistenza nel bergamasco fu tormentato da difficoltà organizzative, insicurezza, delazioni, incertezze nella prospettiva. Nei primi giorni dopo l’8 settembre, migliaia furono comunque i soldati italiani assistiti, e gli ex prigionieri di guerra avviati verso la Svizzera, o messi al sicuro tra i contadini e nelle ville della zona.

Filippo Benassi Grumellina

I parroci bergamaschi allestiscono una rete cospirativa che consentì a numerosi ex internati nel campo di Grumellina di raggiungere il confine attraverso la Valtellina, la Val Vigezzo, la Val Malenco.

Franzinelli

Alcuni di loro non fuggono in Svizzera, almeno non subito. In una zona a nord di Bergamo, sul colle della Maresana, alcuni ex-prigionieri alleati fuggiti dal campo di concentramento fascista allestito nel quartiere periferico della Grumellina e da altri campi di prigionia, si uniscono a soldati sbandati dopo l’armistizio e formano un gruppo di circa un migliaio di uomini. La “Grumellina” è il campo per prigionieri di guerra n. 62 di Grumello del Piano, uno degli oltre 70 campi di prigionia istituiti nel Regno d’Italia. Fu aperto nell’estate del 1941per internare prigionieri di guerra di grado inferiore (sottufficiali e truppa).

Il conte Filippo Benassi, combattente e decorato al valore nella prima guerra mondiale, avrebbe avuto di sicuro possibilità di trovare rifugio sicuro in Svizzera, ma aveva scelto la via più dura e rischiosa. E non è l’unico.

Dopo l’8 settembre, di fronte a centinaia di soldati allo sbando e a rischio di cattura, prende forma immediatamente un’operazione spontanea di salvataggio su larga scala in cui primeggiano le donne.  Anche sul colle della Maresana, grazie all’opera di Adriana Locatelli (1911 – 2007), alcuni soldati sbandati si avviano a diventare partigiani. È lei che racconta:

«Riesco a organizzare un campeggio vero e proprio di soldati, sparsi intorno alla “Maresana”. Ne assumo la direzione e il mantenimento. Sono circa 1500, numero che via via aumenta perché ad essi si aggiungono i prigionieri, fatti fuggire dall’Istituto Palazzolo a mezzo di madre Anastasia, che avvio direttamente al campeggio. Ingente è il loro afflusso: in un giorno ne giungono 135. Frattanto stabilisco contatti con un altro gruppo situato sul Monte di Nese, il quale mi invia rivoltelle a mezzo del patriota Renzo Gambirasio. Il dott. Leidi mi pone in contatto col Comitato di Liberazione, all’insaputa di mio padre. Mi incontro col dottor Mondini il quale mi ordina di trattenere i prigionieri, dicendomi che manderà un ufficiale per dirigere i miei soldati».

Lo slancio immediato di migliaia di donne nell’aiuto ai militari sbandati e ai prigionieri, anche stranieri, dall’8 settembre 1943 fu tanto più notevole perché, diversamente dall’impresa di Dunkerque –
quando, ai primi di giugno del 1940, centinaia di imbarcazioni private, in risposta all’appello lanciato via radio dal governo inglese, recuperarono i ragazzi dell’esercito britannico dalle coste della Normandia per salvarli dalla Wehrmacht – queste donne non le aveva convocate nessuno.

Anna Maria Bruzzone

A Bergamo l’attività cospirativa di Adriana Locatelli attira l’attenzione delle autorità nazifasciste. I carabinieri perquisiscono la sua casa a Torre Boldone, ma senza conseguenze. Racconta la stessa Adriana:

«Papà insiste perché io non abbia più a prodigarmi con tanta intensità per i miei soldati. Finalmente il 25 ottobre giunge il capitano Benassi, alias prof. Marino Colasanti. Il capitano sale al campeggio, lo visita per intero, e si congratula vivamente con me per il perfetto funzionamento. Solo papà è poco contento per il rischio cui mi esponevo. Muto il mio nome in quello di battaglia di “Lalla”, e da quel giorno è un succedersi di colloqui e di ritrovi col capitano e coi suoi uomini, al cimitero di Bergamo, nei colombari, nelle chiese di S. Anna, di S. Caterina al Santuario e di S. Giorgio, dal fiorista Valoti e, più ancora, nello studio del dott. Leidi, centro dei più importanti ritrovi. Continuo inoltre a sviluppare ancor di più il traffico delle armi».

Aumentano i rischi per Adriana Locatelli, il suo telefono è sorvegliato, lei si accorge di essere pedinata dai tedeschi e dalla 612° compagnia Ordine Pubblico Bergamo (OP), comandata da Aldo Resmini, alle dipendenze della Guardia nazionale repubblicana. La compagnia svolge, su ordine dei nazisti, i compiti più infami: torture, sevizie, esecuzioni sommarie di antifascisti.
Il 2 novembre nazisti e fascisti attaccano l’accampamento della Maresana, ma i partigiani non subiscono perdite (si registreranno solo due feriti). Ad essere colpita, come spiega la stessa Adriana Locatelli, è però la popolazione locale:

«Chi ne risentirà maggiormente sarà la popolazione di Ponteranica, frazione Castello: sette cascine incendiate, mentre i proprietari vengono derubati senza pietà di ogni loro avere».

Si tratta, probabilmente, di uno dei rastrellamenti nazifascisti che caratterizzano la fase iniziale della guerra partigiana. Ad aggravare ulteriormente la situazione della banda della Maresana, però, è la sua collocazione alla periferia di Bergamo, in luogo aperto e facilmente raggiungibile. Adriana Locatelli, Filippo Benassi ed Emilio Rivellini decidono pertanto di sciogliere il gruppo con l’impegno però di sottrarre ai nazifascisti, anche passando fittiziamente al loro servizio, ogni arma possibile, per costituire la prima dotazione di armi di una nuova formazione , con prevista dislocazione in zona montana.

A fine novembre vengono arrestati i componenti del Comitato di liberazione nazionale bergamasco. Anche i contatti con il CLN di Milano sono interrotti. È sempre Adriana a raccontare: «Malgrado si accentui la sorveglianza, continuiamo lo stesso il nostro lavoro di assistenza, di informazioni e di traffico d’armi. Col capitano ci dividiamo il compito: la mia zona è la valle Seriana, la sua Bergamo e paesi limitrofi».

Due persone che operano nella Banda Maresana sono spie: uno dei due denuncia Adriana e cerca di ricattarla.

 

L’arresto di Adriana Locatelli

Il 4 gennaio 1944, durante un incontro al cimitero di Bergamo, Adriana Locatelli e Filippo Benassi sfuggono fortunosamente all’arresto (Adriana finge di pregare nella cappella centrale del cimitero, mentre Benassi e un’altra persona riescono a scappare.

L’infiltrazione delle due spie provoca infine l’arresto di Adriana Locatelli. All’alba del 26 febbraio ’44 i nazisti circondano la casa di Torre Boldone, costringono Adriana e i suoi genitori a subire una pesante perquisizione, poi Adriana e suo padre vengono portati al “Baroni”, un collegio in via Pignolo requisito e trasformato dai tedeschi in carcere e luogo di tortura per detenuti politici. Ad affiancare i nazisti, la compagnia di Resmini. Le spie infiltrate nella banda Maresana permettono ai nazifascisti di scoprire le attività di Locatelli e Benassi, tra le quali i piani per liberare i prigionieri politici del “Baroni” e del carcere di S. Agata. Inoltre vengono arrestate Nanny Locatelli, sorella di Adriana, il colono della famiglia Locatelli e due soldati che nascondeva in casa, il conte Pietro Moroni, la baronessa Mariella Valenti Benaglio e altri antifascisti.

Durante gli interrogatori Adriana Locatelli viene duramente picchiata e torturata. Inoltre, racconterà poi che:

«Di notte sono rinchiusa in cella con un ufficiale della SS germanica; al mattino devo lavarmi nuda davanti a lui e a una turba di sbirri. Il cibo che mi portano non lo debbo mangiare, quello inviato da casa viene portato e mangiato dagli sbirri sotto i miei occhi. I miei vicini di cella s’illudono che io abbia un eguale trattamento al loro, e che le mie condizioni fisiche siano buone, mentre sono sempre più sofferente e indebolita da continue emorragie».

Di cosa è accusata Adriana Locatelli? Spionaggio, traffico di armi e munizioni, diffusione di stampa clandestina e di propaganda disfattista, occultamento ed espatrio di prigionieri di guerra. Lei ammette solo di aver fatto da sola della carità e confessa che i rapporti e gli incontri con il  capitano Marino Colasanti sono di carattere sentimentale. Dopo aver cercato, invano, di trasformarla in collaboratrice e spia, i nazifascisti trasferiscono Adriana nel carcere di S. Agata, dove continuano gli interrogatori e le torture. Nel suo diario, Adriana Locatelli racconta che riesce a far liberare alcuni componenti della banda. Fortemente debilitata dalle violenze e dalle torture fisiche e psicologiche subite, grazie all’intervento di alcuni ufficiali e sottoufficiali dei carabinieri e dei servizi segreti della Rsi, il 20 novembre 1944 Adriana Locatelli viene trasferita e finalmente curata, come detenuta, all’Ospedale Maggiore di Bergamo. Ottiene la scarcerazione il 16 febbraio 1945, ma per le sue gravi condizioni di salute deve rimanere ricoverata in ospedale fino all’autunno del 1945.
Adriana Locatelli sopravviverà e morirà il 27 giugno del 2007.

Alla fine della guerra, la qualifica di “partigiano combattente” viene riconosciuta con grande difficoltà alle donne che hanno fatto la Resistenza. A parte il fatto che molte donne non la richiedono, e sarebbe già interessante approfondirne le ragioni, e oltre alle difficoltà dovute ai criteri di attribuzione (che interessano anche gli uomini quando deportati nel lager o detenuti nelle carceri fasciste), si assiste alla riproposizione del primato dell’uomo nella lotta armata e nell’iniziativa politica. La partigiana Nelia Benissone Costa ricorda il suo caso:

«Avrei dovuto avere i gradi da tenente o da capitano, alla fine della guerra, invece non ho neanche fatto la richiesta del riconoscimento partigiano. Un ragazzo, Pettini, che io avevo messo a lavorare nella Resistenza e a cui avevo dato il comando militare di rione – negli ultimi mesi io avevo anche il comando militare del settore, perché dovevamo organizzare quadri militari, formazioni per il momento dell’insurrezione -, un giorno mi dice:
“Nelia, hai fatto la domanda per il diploma?”
“No, neanche per sogno”.
E allora me la fa lui e mi mette come “soldato semplice” della sua formazione, l’8a Brigata SAP “Osvaldo Alasonatti”. E io gli avevo dato il comando!».

Non va molto meglio ad Adriana Locatelli. Non conosciamo lo sviluppo della pratica burocratica del suo “diploma”, il risultato è il riconoscimento della qualifica di “Capo squadra” con il grado militare di “Serg. Maggiore”. Chissà come Adriana Locatelli avrà inteso quello che a me sembra un declassamento (da co-fondatrice della banda a capo squadra)?
Gradi militari a parte, è il carattere politico della partecipazione delle donne alla Resistenza la questione importante.

Il 13 dicembre 1944, Filippo Benassi, dopo aver convocato i suoi uomini presso la stazione ferroviaria, si reca alla banca Mutua Popolare di Bergamo per ottenere un finanziamento da parte del C.L.N. Sulla strada per la banca, però, viene arrestato insieme a Rivellini.

Subito dopo essere usciti dalla banca, i due vengono fermati da quattro militi fascisti. Rivellini cerca di estrarre la pistola, ma viene disarmato e immobilizzato. Nonostante il fermo, Benassi riesce a farsi rilasciare, presentandosi – documenti alla mano debitamente falsificati – per un commerciante milanese che aveva rapporti d’affari col Rivellini.

Emilio Rivellini, invece, viene condannato a cinque anni e successivamente deportato nel lager di Kaisheim (Baviera), uno dei 75 sottocampi dipendenti dal campo di concentramento di
Natzweiler-Struthof. Ricercato anche dal colonnello Turco, già suo superiore alla Grumellina, Filippo Benassi per sfuggire all’arresto assume diverse sembianze, riesce per un po’ a sfuggire alla polizia grazie a numerosi camuffamenti.
Ma agire sotto mentite spoglie non basta. Il 27 aprile, alle ore 17:20, sta andando dalla signorina Roncalli, nota collaboratrice partigiana, quando gli si avvicina un camioncino con a bordo alcuni repubblichini. Gli intimano di fermarsi, lui gli ignora e i repubblichini lo investono. Raccolto in gravi condizioni, viene ulteriormente picchiato, poi  trasportato nel carcere di S. Agata.

 

Filippo Benassi e la deportazione con il Trasporto 90

Il trasporto 90 partì dal campo di Bolzano il 5 ottobre 1944 con destinazione Dachau, dove giunse il 9 ottobre 1944. Sulla base della sequenza dei numeri di matricola attribuiti alla data di
arrivo del convoglio (compresi tra il 113130 e il 113619), il totale dei deportati può essere stimato intorno a 490, di cui 251 identificati. Al 1984 ne risultavano superstiti 35.

Tra i deportati del Trasporto 90 c’è Filippo Benassi. All’ingresso nel lager è classificato con la categoria Schutz, abbreviazione di “Schutzhäftlinge, “deportato per motivi di sicurezza”, una delle categorie usate dai nazisti per i deportati politici. Gli viene assegnato il numero di matricola 113153.
Filippo Benassi fu ucciso a Dachau il 6 aprile1945 , ventitré giorni prima della liberazione del campo.

Il nome di Filippo Benassi è ricordato nella lapide collettiva di piazza Morbegno.