È impossibile parlare di Resistenza a Milano senza imbattersi in San Vittore. È in questo carcere, infatti, che numerosi ebrei e buona parte delle persone coinvolte nella lotta contro i nazifascisti venivano portati dopo l’arresto. E all’interno le condizioni erano delle più dure.
Per citare le parole di suor Enrichetta Alfieri, la cui storia racconteremo tra poco, i nazisti “amministrarono il carcere con criterio di campo di concentramento”.
Le persone detenute nelle celle di San Vittore erano in perenne attesa di essere deportate, torturate o fucilate. Nel libro di Santo Peli “Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza” leggiamo:
«Tra gli strumenti utilizzati dalla Rsi e dagli occupanti tedeschi per terrorizzare la popolazione e stroncare qualsiasi opposizione, la tortura è quello destinato, da subito, a scolpirsi nell’immaginario collettivo, a caratterizzare, assieme ai bombardamenti, il tono drammatico di un’epoca. Strumento, quello della tortura, utilizzato solamente dai nazifascisti: non è, questa, una discriminazione di poco conto».

”Difficile stabilire, in quei seicento giorni della repubblichina di Salò e di occupazione tedesca, dove venissero praticate le più infami sevizie. Milano, come il resto del paese, pullula di luoghi mostruosi dove la tortura è un metodo abituale. Torturano tutti: Gestapo, SD 13, Legione Muti, Brigate nere, Guardia nazionale repubblicana, e tutte le varie bande autodefinitesi polizie speciali. Nell’agghiacciante elenco spicca il carcere di San Vittore, divenuto luogo di supplizio per ebrei e detenuti politici fin dalle prime settimane dell’occupazione.
Borgomaneri
Storie di resistenza all’interno del carcere di San Vittore
Tra le mura di quell’inferno che fu San Vittore durante l’occupazione nazifascista, ci fu però chi scelse di resistere, fare qualcosa per provare a migliorare le pessime condizioni dei detenuti. Tra questi abbiamo scelto di raccontare le storie del partigiano Antonio De Bortoli e della suora Enrichetta Alfieri.
Antonio De Bortoli
Il partigiano Antonio De Bortoli a San Vittore era addetto ai pacchi e, grazie a questa occupazione, riuscì ad aiutare altre persone:
«Al lunedì si andava a ritirare i pacchi della biancheria pulita che i nostri familiari ci portavano dopo aver ritirato quella sporca. I pacchi venivano aperti e controllati dai tedeschi, capo per capo, e siccome ogni pacco aveva il nominativo, io mi mettevo in prima fila, così nel ritirare il pacco dei parenti avevo la possibilità di dire in fretta qualche parola: “Arturo sta bene, Giovanni vi saluta, Giuseppe sta benone”, e così via. I parenti erano soddisfatti e andavano a casa più tranquilli. A dire la verità dicevo a tutti le stesse cose e a volte non li conoscevo neanche, ma dicevo così per dare un po’ di coraggio a quella povera gente disperata. Quando portavo i pacchi ai detenuti, facevo lo stesso. Dicevo: “I tuoi stanno bene, i tuoi ti salutano”. A chi mi chiedeva: “Era mia moglie? Era mia sorella?”, rispondevo: “Sì, sì, erano loro”, ma non potevo dire tanto perché un po’ inventavo, benché a fin di bene».
Non era però sempre possibile rincuorare i parenti dei carcerati rinchiusi a San Vittore durante il nazifascismo. Prosegue il partigiano De Bortoli:
«Se i destinatari erano partiti o erano stati fucilati: nessuno lo sapeva con precisione. Noi dovevamo ritirare il pacchetto della biancheria e dire soltanto: “Partito”. Ai parenti veniva un colpo, si abbattevano, piangevano».
Maria Enrichetta Alfieri
Un altro esempio di resistenza all’interno del carcere di San Vittore durante il nazifascismo è quello di suor Enrichetta Alfieri, conosciuta come “l’angelo di San Vittore”. Nata a Borgo Vercelli nel 1891 e morta a Milano nel 1951, suor Enrichetta era parte dell’ordine della Carità di Santa Giovanna Antida Thouré. Madre superiora dal 1923 con compiti di sorveglianza e assistenza nella sezione femminile, durante l’occupazione nazifascista collaborò con la Resistenza e, come altre sue consorelle, si prodigò generosamente a favore di ricercati e detenuti. Un’attività che le costò l’arresto.
Quando suor Enrichetta e le sue consorelle uscivano dal carcere di San Vittore portavano messaggi, incontravano parenti di detenute e detenuti, assicuravano i contatti tra le persone carcerate e il Comitato di liberazione, raccoglievano ogni genere di cosa utile per alleviare le dure condizioni di detenzione. Quando rientravano a San Vittore, avevano oggetti, cibo e posta ovunque: nelle maniche, nelle pettorine, nelle tasche, nelle scarpe, nelle cuffie. A queste attività si univa anche loro opera di assistenza morale e spirituale sui carcerati sconvolti, depressi dai lunghi, massacranti interrogatori e dal punto interrogativo sul loro avvenire.
Maria Arata Massariello, detenuta a San Vittore prima di essere deportata a Ravensbrück, ricorda:
«La madre Superiora Suor Enrichetta Alfieri, Suor Gasparina, Suor Vincenza, Suor Onorina e le altre ancora. Sono anch’esse nobili figure della resistenza milanese. Con i maniconi della loro veste, le loro S. Messe in S. Vittore, quanti biglietti portarono fuori dal carcere! Erano biglietti di collegamento dei carcerati con l’attività clandestina esterna che continuava. Vegliavano anche sugli interrogatori che avvenivano in una camera con finestra ad inferiate che dava sul giardino. Una sera quando il mio interrogatorio si prolungava più del consueto tra minacce di torture varie, approfittando dell’assenza del tenente, Suor Vincenza comparve tra le sbarre e mi porse un rosso d’uovo con marsala».
Il lavoro delle suore attive nella Resistenza proseguiva anche presso l’ospedale Niguarda, dove erano ricoverati numerosi detenuti del carcere di San Vittore. Qui, insieme al personale medico, le religiose dell’ospedale si prodigarono per organizzare fughe, simulare aggravamenti delle loro condizioni di salute o alimentare allarmismo su possibili epidemie (molto temute dai nazisti). Tra di loro, occorre citare suor Giovanna Mosna.

”Di fronte a un giovane ferito gravemente si accorge che era molto inquieto e teneva gli occhi fissi sulla propria giacca, posta in fondo al letto. Suor Giovanna intuisce: fruga nelle tasche della giacca, estrae alcune carte che infila abilmente nelle sue. Poco dopo arrivarono alcuni fascisti.
Mengotto